Vernissage
Sabato
14 novembre 2020
ore 14:30
Periodo
dal 10 novembre al 27 febbraio 2021
da martedì a sabato
dalle 8:30 alle 24:00
Aperture straordinarie
8 dicembre 2020
Geografia del tempo – Igor Ponti
«Ho la fama di essere uno che fa foto di cose brutte». Messa giù così, non è esattamente la frase che ci aspetteremmo di leggere sul biglietto da visita d’un fotografo. Ma la prospettiva cambia se a dircelo è Igor Ponti. Uno il cui lavoro – in effetti e grazie al cielo – non parte dalla bellezza esotica, dalle tenerezze a buon mercato, dall’intimismo saturo dell’instagrammabile. Il suo è un mondo fatto di palazzoni, parcheggi, muri vecchi e nuovi. Un cartellone qua, un alberello malconcio là, magari un autolavaggio o un distributore di benzina. Il tutto senza neppure indulgere in un altrettanto onnipresente, estetizzante ‘pornografia delle rovine’. «Cose brutte», in un certo senso, ma anche ricche di frammenti che parlano di noi, nel bene e nel male. Cocci aguzzi di bottiglia, direbbe il poeta. «Mi interessa mostrare il territorio per com’è e per come riflette le persone che lo abitano», spiega; un modo per «indovinare come vivono andando a vedere dove», e magari «notare quello che altrimenti tendiamo a rimuovere». Succede che l’operazione è a volte illuminante, altre allusiva, altre ancora piuttosto dolorosa.
Perché mentre la nostra mente tende a concentrarsi su verdi montagne o bei laghetti pur di convincerci a tutti i costi di stare in paradiso, Ponti ci riporta a quel paesaggio urbano confuso, sghembo e a volte squallido nel quale in realtà molti di noi passano gran parte del loro tempo. «Non per giudicare, ma per far vedere che questo è ciò che abbiamo attorno», con le sue stratificazioni di edifici e oggetti che «forse, all’epoca in cui sono sorti, sembravano il non plus ultra e oggi invece non lo sono più». Perché «le persone cambiano idee, lavori, opinioni, attività, modi di relazionarsi col prossimo», e il segno di questo andare avanti – e di ciò che ci lasciamo dietro – «resta impresso nei luoghi nei quali viviamo, forse ancor più che nel modo in cui ci raccontiamo e ci vestiamo». Così, ad esempio, «le toilette di dieci città diverse testimoniano dieci storie a loro volta differenti, che nessuna omologazione riesce ancora a nascondere».
Lo spazio che si fa tempo e viceversa, a voler proprio filosofare. È seguendo questo solco che Ponti – luganese, classe 1981 – ha girato le strade di Molino Nuovo, per documentare l’affastellarsi di diverse epoche nello stesso contesto cittadino, il più denso di tutta Lugano. Un proposito che «ti mette sempre di fronte a un lavoro incompiuto, perché il territorio, ovvero tutto quello che sta fuori dalla porta di casa tua, cambia sempre»; sicché «ogni documentazione che se ne fa è allo stesso tempo attuale e incompleta». Per portare a casa qualcosa, allora, c’è anche bisogno di darsi dei limiti senza i quali «l’aspetto narcisistico di questo lavoro» rischierebbe di degenerare in onanismo retorico. Nel suo caso quei limiti autoimposti si ritrovano nella scelta – già distintiva in lavori quali ‘Looking for Identity’ (2014) e ‘Foce’ (2016) – di lavorare con cavalletto e banco ottico, vincolandosi a un approccio statico e molto poco ‘portatile’, che «mi permette di tracciare i confini entro i quali lavorare in maniera creativa, anche istintiva e caotica, ma senza dispersioni né distorsioni, in modo il più possibile fedele a quello che vede l’occhio umano». Si tratta, spiega Ponti con un’espressione che non a caso ricorda il mondo dell’edilizia, di «tenere le linee ‘in bolla’». Il risultato è una ricerca che passa dalla geometria dei palazzi, della grana dei materiali, ma anche dall’involontario effetto ironico di certi dettagli: il cespuglio che spunta da un marciapiede, il colore acceso dell’insegna d’un garage. «È un modo di lavorare che può sembrare un po’ anacronistico: c’è chi mi dice che gli ricorda gli anni Settanta. Ma mi serve a osservare meglio come le trasformazioni sociali si riflettano su Lugano».
Tanto più che una parte di quelle trasformazioni fa parte della sua esperienza personale: «Il mio primo ricordo di Molino Nuovo è legato a quando ero piccolo e mio padre mi portava in un grandissimo negozio di materiale da hockey, che ora ha chiuso. A Molino Nuovo ho frequentato la Csia (Centro Scolastico per le Industrie Artistiche, ndr), quando ancora stava sopra al Migrolino. Mi ricordo le prime feste al Conservatorio di scienze audiovisive, il Cisa, in un palazzo che adesso hanno buttato giù. E anche il mio primo studio e la mia prima casa, un appartamento ricavato in una vecchia villa dell’Ottocento, coi soffitti alti e il parquet a lisca di pesce. Hanno buttato giù anche quella.
Si vede che dove passo io non cresce più l’erba…» Scherzi – malinconici – a parte, nasce anche da qui la voglia di raccontare un posto nel quale «è iniziata la mia vita adulta». Un quartiere popolare che ancora oggi resta unico nella realtà ticinese: «Quando vivevo qui amavo gli odori diversi di una comunità che vedeva affiancati il pakistano e l’italiano, il ticinese e il portoghese. Provavo la sensazione di avere tutto a portata di mano: le botteghe, la cartoleria, la pizzeria, il kebab. Un posto piccolo, ma grande. Lo so che suona strano, ma mi sembra un po’ Brooklyn».
Ecco, un’altra cosa da sapere è che l’immaginario di Ponti è completamente permeato da quell’egemonia culturale americana che d’altronde domina tutta la nostra generazione, quella di chi è ‘venuto grande’ tra anni Ottanta e Novanta: «Sono un europeo che fotografa come un americano, anche se in America non ci ho mai vissuto», dice con qualche rimpianto; «sono cresciuto con l’idea di essere nato nel posto sbagliato», guardando sempre dall’altra parte dell’Atlantico. Non rida, il lettore più avvezzo a banalizzare la cultura ‘yankee’ alla luce d’una presunta superiorità europea: piaccia o no, dell’America siamo ancora la periferia, e allora tanto vale conoscerne il centro (o le altre periferie possibili). Così, nelle foto di queste pagine capita di scorgere un uomo e una vetrina da Edward Hopper, o certi ‘paesaggi sociali’ di Lee Friedlander. Anche se per Ponti l’America è anche l’A-Team e Michael Jordan, Bo & Luke, Charles Bukowski. E poi lo skate, che ha plasmato il suo modo di vivere la città (e al quale ha dedicato un altro libro, ‘Skate Generation’, nel 2009): «Crescere come skater vuol dire guardare, connettere gli oggetti e l’arredo urbano in modo diverso», vedere una rampa per saltare o un tienimano per far correre la tavola «in elementi concepiti per usi completamente diversi». Uno sguardo rovesciante che poi, anche da fotografi, proprio per la sua originalità «può significare un sacco di frustrazioni, perché naturalmente non tutti vediamo le stesse cose con gli stessi occhi. A livello di autopromozione, scegliere di concentrarsi su certe cose e di raccontarle in questo modo è un po’ come darsi una martellata sulle palle».
E in effetti non ce lo vediamo Ponti a fotografare modelle e salotti, men che meno il nostro matrimonio (piuttosto, il nostro divorzio). Ma quella martellata rompe il guscio di superficialità col quale (non) guardiamo le nostre città. Certe immagini ci spingono a pensare dove mai avessimo gli occhi e la testa negli ultimi cinquant’anni o giù di lì, mentre sul territorio si addensava un Tetris di edifici incoerenti, tutti più o meno avviati lungo l’impietosa parabola che corre veloce dalla lucente modernità a un sommesso, spesso goffo, più raramente romantico squallore: «Oltre mezzo secolo di sviluppo senza nessuna pianificazione urbana, con risultati che in certi casi meriterebbero una denuncia contro ignoti», la tocca piano. Anche se la sua, Ponti si affretta ad aggiungere, «non è una fotografia di denuncia. Non so nemmeno se esista, una cosa del genere. Magari c’è anche un po’ la speranza che qualcuno guardi e pensi che forse è ora di cambiare qualcosa, ma la critica sociale non è il mio obiettivo. E il giudizio, se dev’esserci, spetta proprio a chi guarda». In effetti, l’impressione è che quelle inquadrature né troppo distanti, né troppo asfittiche rendano la densità urbana senza per questo vagheggiare chissà quale passato bucolico. È vero che Molino Nuovo è il posto in cui «ancora cinquant’anni fa mio papà veniva a far fieno», ma in queste immagini si sente più Tom Waits che il ragazzo della via Gluck. Quello di Ponti è allora «uno sguardo ‘vernacular’», come dicono – ancora una volta meglio di tutti – gli americani: ovvero «attento a raccontare gli oggetti di tutti i giorni. Nel mio caso, i paesaggi. Tutto sommato, qualcosa di semplice e familiare». Perché in fondo è di casa nostra, che si parla qui.
Lorenzo Erroi
Biografia
Igor Ponti
Igor Ponti (1981), durante i suoi studi in arte applicata sviluppa il suo interesse per la fotografia. Lavora come fotografo mosso dal desiderio di continuare la sua ricerca sul paesaggio e in quale misura e forma esso sia legato all’ambiente umano.
Nel 2009 realizza il progetto personale Skate Generation, una serie di ritratti in bianco e nero che documenta una generazione di skater alla quale appartiene. Il progetto è diventato il suo primo libro pubblicato dalla casa editrice Fontana Edizioni.
Nel 2010 inizia la sua nuova ricerca per descrivere e indagare l’idea di un’identità svizzera comune. In questi anni la sua ricerca si è spostata verso un approccio più documentaristico che lo porta alla ricerca di un paesaggio antropico.
Nel 2013 è beneficiario della borsa di studio di Pro Helvetia del Consiglio svizzero per le arti per nuovi talenti nel campo della fotografia.
Nel 2014 viene pubblicato da Hatje Cantz il suo secondo libro Looking for Identity, risultato delle ricerche sul paesaggio svizzero. Nello stesso anno viene invitato alla fiera internazionale di fotografia di Parigi, Paris Photo Fair, per la presentazione del suo lavoro. Nello stesso anno Looking for Identity sarà nella selezione finale del New York Photo Festival 2014.
Nel 2016 viene pubblicato il suo terzo libro Foce dove concentra la sua attenzione sul cambiamento di una porzione della sua città legata alla natura e alla sua trasformazione.
Le sue immagini fanno parte di collezioni private e istituzionali e hanno fatto parte di mostre personali e private. Giovanna Calvenzi descrive il suo lavoro come uno strumento di ricerca fotografica per interrogarsi e verificare le radici della propria appartenenza attraverso una visione lenta, che richiede pianificazione, un linguaggio che non giudica, non commenta, non si abbandona ad acrobrazie estetiche.